domenica 25 luglio 2010

sono una non cittadina

I ricordi li ho affidati al web. Per mesi dopo la riga rosa sul display del test di gravidanza, ho cercato risposte ai miei dubbi su un forum per donne in dolce attesa. Al secondo mese già chiedevo lumi su villocentesi e amniocentesi, sulla dieta giusta da seguire per assicurare una salute di ferro a mio figlio per i prossimi 40 anni, sui danni dall'assunzione di alcuni farmaci.

La mia pancia cresceva giorno dopo giorno ma accanto non avevo nessuna compagna di gravidanza. Le mie amiche continuavano - e continuano anche adesso che mio figlio ha otto mesi - ad essere single impenitenti e mia sorella sta programmando solo ora un cuginetto per suo nipote. Internet con i suoi mille siti e forum dedicati alle future mamme era il sostituto perfetto a questo vuoto; potevo leggere e scambiare opinioni di parti appena consumati, descritti spesso minuziosamente. La dilatazione della vagina, la sensazione della testa del bambino che si fa strada paragonata all'andar di corpo, le lacerazioni e le episiotomie, le flebo di ossitocina, l'epidurale, il cesareo elettivo o d'urgenza, la rottura delle acque, il parto indotto, naturale, dolce. E poi sempre, immancabile, la frase che riequilibrava quelle istantanee che sembravano rubate sulla scena di un film dell'orrore: appena ho stretto il mio bambino al petto ho dimenticato tutto.

Youtube mi deliziava con parti in casa o in acqua, tutti con protagoniste piuttosto silenziose e tutto sommato rilassate. Il parto era quindi l'aspetto che mi preoccupava meno; ero convinta che le scene viste in diversi film di donne sudate e urlanti intente a dare alla luce il loro bambino erano iperboli ad uso e consumo degli spettatori, anabolizzanti filmici per rendere la trama più interessante. E poi c'era lei, l'ultimo ritrovato nel campo delle cure palliative e del controllo del dolore, la regina di tutte le analgesie, il biglietto da visita dell'ex Ministra Livia Turco: l'epidurale. Se le cose si fossero rivelate più dolorose del previsto potevo sempre rifugiarmi dietro un bolo di bupivacaina. Dopotutto siamo in Italia mica in Cambogia o Afghanistan e se il dolore fosse realmente così insopportabile come lo descrivono ad Hollywood, lo Stato Italiano potrebbe mai permettere di lasciare noi donne prive di un qualsiasi misericordioso e banale antidolorifico?

Così, con questi pensieri in testa sono arrivata alla vigilia del gran momento. Uno struzzo con testa e pensieri cacciati sotto metri di sabbia.

Cinque ore prima della mia promozione a mamma italiana passeggiavo con mio marito per le calli della mia Città. Venezia era magnifica quella tiepida notte di settembre e le fastidiose fitte che sentivo non mi allarmavano affatto. Il ginecologo del pronto soccorso il giorno prima mi aveva rassicurato: il collo dell'utero era ancora sigillato.

Tre ore più tardi ero distesa sul divano di casa guardando ogni dieci minuti l'isola dei famosi e quindi l'orologio per controllare la regolarità delle fitte che ormai non potevo più ignorare. Erano aumentate d'intensità e sempre più ravvicinate. Ilias stava nascendo.

Alle 2 e 55 io e mio marito entriamo in ospedale. Entro in sala travaglio tranquilla scherzando con le ostetriche. Le fitte sono dolorose ma nulla a che vedere con Hollywood e le sue attricette sudate e urlanti. Ce la farò, penso tutta soddisfatta.

Mi dicono di cambiarmi, di lasciare fuori i vestitini di Ilias e la cartella con tutti gli esami. Mentre mi infilo la camicia da notte bianco panna la sento. E' una lama, un'onda d'urto dopo una sorda e sotterranea esplosione. E' il Dolore. Appena finisce mi ritrovo in mano la cartella degli esami e la consegno dicendo che dentro ci sono tutte le analisi per l'epidurale. "Ma quale epidurale. Dai, dai che ce la fai benissimo da sola". Sono in Cambogia, sono a Kabul. L'ospedale è un'ambasciata che gode di extraterritorialità.

Vorrei insistere, ricordare che il primario anestesista mi ha assicurato che anche al di fuori della fascia garantita per l'analgesia - dalle 8:00 alle 20:00 come un supermercato - potevo contare su un manipolo di anestesisti volontari e misericordiosi. Vorrei ma una seconda doglia mi trascina sotto. E' un oceano immenso di dolore quello che si spalanca davanti ai miei occhi. Sono onde che quando arrivano dilaniano le carni, tendono i muscoli e frantumano le ossa. Quanto durerà questo maremoto? E cosa rimarrà di me dopo questo tzunami? Non ho fiato. "Aiutatemi soffoco, non respiro".

Il panico. Riconosco subito la crisi che un paio di anni prima mi aveva fatto assumere qualche ansiolitico e una manciata di antidepressivi. E vorrei ridere. Ridere per la beffa crudele. L'unica lezione di corso pre-parto che ho seguito era dedicata al dolore e alle tecniche di rilassamento. L'ostetrica parlava di cubi visualizzati con spigoli da smussare come di un rimedio efficace per la sofferenza. La cosa mi era sembrata da subito ridicola e avevo deciso che non avrei più chiesto 4 ore di permesso dal lavoro per sentire altre storielle. Se lo Stato Italiano spendeva soldi per promuovere simili ritrovati forse il parto non era poi così doloroso. E poi nemmeno mia madre o Sara, la mia nuova amica conosciuta proprio per via dei nostri pancioni e che aveva partorito Lorenzo poche settimane fa, mi avevano mai confessato uno strazio come quello che stavo vivendo.

Grazie al mio passato di ansiosa patologica riesco a dominarmi riguadagnando la superficie e tornando a respirare. Ma sono comunque immersa nel dolore, ci galleggio e alle volte sprofondo. Allora le mie mani afferrano e stritolano qualsiasi cosa. La testiera del letto, il comodino, le lenzuola, il braccio dell'ostetrica. Si lamenta la maledetta. Quella che non ha voluto chiamare l'anestesista ora mi sgrida perché le ho fatto male piantandole le unghie nel braccio. Importa sapere che le tengo sempre corte? Che sto soffrendo come sotto tortura? Inizio a non fidarmi più delle mie aguzzine. Le odio ma sono nelle loro mani. E allora mi umilio, scompaio come essere umano. E per dieci lunghi minuti continuerò a ripetere "Mi scusi! Non volevo!".

E' la sindrome di Stoccolma che durerà anche nei due giorni seguenti di degenza in ospedale. Quando rivedrò la piccola ostetrica, bionda e tarchiata, la prima cosa sarà rinnovare le mie scuse per quel livido sul braccio. Scuse accettate con qualche difficoltà.

Il tempo si annulla sotto i magli ritmici e devastanti delle doglie. Sembrano passare secoli o pochi istanti prima dell'espulsione. Mio figlio si incorona con le ossa del bacino e con la mia carne. In quel momento sento lo strazio del mio corpo che si tende e si lacera. Imploro lo svenimento, il deliquio, la stessa morte. Sono altrove ma non per la magia del momento, ma per un meccanismo di autodifesa del mio cervello. Sono altrove per illudermi che quell'orrore non sta capitando a me ma a un'altra persona. "Signora ma non vuole vedere suo figlio?" sbotta la ginecologa porgendomi il corpicino nero e viola di Ilias sospeso da un grosso e luccicante torciglione giallo.

Mio figlio ha otto mesi e io con lui. Sono una giovane non-cittadina, una piccola non-italiana. E sono una gran cretina.

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