venerdì 2 marzo 2012

so che starai meglio fuori che dentro

Avevo un sospetto. Piccolissimo ma ce l'avevo. Mi trovavo a Sanremo a seguire il popolare festival. Nessuna nausea, nessuna stanchezza particolare. C'era però un ritardo nelle mestruazioni. Ma decisi di non dire nulla a mio marito.
Non stavamo cercando un figlio in quel momento. Se ne parlava, è vero. Anche perchè l'orologio biologico è inesorabile. A 36 anni cominci almeno a pensarci. Però preferivo aspettare l'estate, così avrei vissuto la gravidanza in autunno evitando le gambe gonfie e i malesseri nei mesi più caldi. Il destino invece ha voluto diversamente e mi sono ritrovata a marzo a fare il test di gravidanza.

Mi ricordo che mi vergognavo da pazzi a comprare gli stick che ti svelano se sei incinta o no. Sono andata in un supermercato, ne ho preso uno in mezzo a tante altre cose. Non so bene perchè provassi quel senso di disagio. Sta di fatto che non ha funzionato. Non l'ho sicuramente usato bene, chissà che ho combinato, ma non indicava proprio niente alla fine della prova.
Il giorno dopo mi sono fatta coraggio e sono andata in farmacia comprando uno stick più costoso ma sicuramente di migliore qualità.
Difficile descrivere le sensazioni provate quando ho visto la linea che indica una gravidanza. Credo di averla osservata una dozzina di volte. Ho subito pensato a quando era successo...quando insomma sono rimasta incinta. Mi è venuta in mente una sera in cui mio marito Savino aveva aperto un Franciacorta che mi fa impazzire. Credo di aver bevuto quasi tutta la bottiglia e di essermi poi dimenticata quello che è successo quella sera... - il vino in questione si chiama Monsupello, nel caso qualcuno volesse provare a rimanere incinta.

Insomma eccomi lì, in bagno a guardarmi allo specchio, con gli occhi sbarrati e con un unico pensiero: come dirlo a mio marito.
Il fatto era...aspetto che lui torni dal lavoro per il pranzo o lo chiamo subito? Certe cose vanno dette a quattr'occhi ma erano le 10 del mattino, come potevo aspettare tre ore?
Decisi di chiamarlo al telefono.
Una di quelle frasi che mettono in ansia le persone è: "ti devo dire una cosa, non so come fare, non ti preoccupare".
io la dissi ovviamente e dall'altra parte del telefono mio marito già stava chiamando i carabinieri. Io iniziai a ridere, lui ad innervosirsi. Dopo 10 minuti di tira e molla mi decisi.." Avevo un ritardo, ho comprato un test di gravidanza e questo stick dice che sono incinta". Zac, l'avevo detto. Silenzio dall'altra parte. Poi una risatina nervosa ed imbarazzo visto che in ufficio non era solo.
"Che faccio? - mi disse.
"E che fai? - risposi - Ci vediamo a pranzo". Parlavamo ma ridevamo, un pò isterici a dire il vero. Qualche ora dopo eccoci lì a guardarci negli occhi, a ridere imbarazzati. Insomma, la nostra avventura iniziava. Certo non potevamo sapere quello avremmo affrontato.

Visita dalla ginecologa, analisi del sangue. Ok. Confermato. Ero incinta. La dottoressa mi dà appuntamento qualche settimana dopo per l'ecografia.
Davanti a quel monitor si trema sempre. Sarà tutto a posto? Cosa ci diranno? Io e mio marito eravamo in questa stanzetta con l'ecografista e la mia ginecologa. Ecco lì la sonda sulla mia pancia. Ci fanno vedere quello sgorbio minuscolo che sembra più un alieno che un futuro essere umano. Davvero emozionante. Poi di colpo il silenzio. L'ecografista diventa seria e ci dice: "Un momento!". Paura. "Ma qui sono due" e indica due con le dita. Mio marito non capisce bene, guarda le dita e gli sembra di vederne quattro. Sta per svenire... "Due, ho detto due". Brivido. Non che fosse un'ipotesi così peregrina. Mio nonno aveva un fratello gemello. Ma non me lo sarei mai aspettato. Mio marito invece me lo aveva sempre detto. Uscimmo dallo studio senza parlare... Due! In una botta sola! Due? O mamma. Subito il giro di telefonate: parenti, amici, tutti a congratularsi e a fare i complimenti a Savino, come se fosse stata premiata la sua virilità! Sono soddisfazioni, suppongo.
Da quel giorno la nostra vita cambiò radicalmente. Due lettini, una carrozzina doppia, due seggioloni e forse pure il trasloco in una casa più grande... Pensieri che non ci lasciavano mai.
La mia ginecologa mi disse subito che sarei dovuta stare a casa e prendermi una pausa dal lavoro. Lì per lì non mi ci vedevo molto a bighellonare nelle quattro mura, ma alla fine cedetti. Un po' perche' fare la pendolare con il treno Civitavecchia- Roma era stancante. Un po' perchè ultimamente non avevo avuto molte soddisfazioni professionali. Non avrei perso grandi cose.
Eccomi lì con questa pancia che cresceva e con queste due creaturine che avevano deciso di venire al mondo.

Avevo prenotato in tempo per l'amniocentesi. Ho scoperto che appena sai di essere incinta devi subito affrettarti a preparare cose che ti sembrano lontane ma che in realtà non lo sono. Un centro consigliatomi dalla mia ginecologa era quello di Sant'Anna a Roma. L'amniocentesi da una parte fuga ogni dubbio da eventuali malformazioni ma quel piccolo rischio di aborto mette sempre paura. Decidemmo di farlo per stare tranquilli.
I due gemelli avevano la stessa placenta ma con due sacche separate. Questo voleva dire due punture. Dopo una breve attesa toccava a me: ero su lettino, mio marito fuori la stanza. Devo dire che ho sentito più di un fastidio, diciamo pure dolore. Ma comunque alla sacca di destra - dove c'era Riccardo (avevamo già deciso che quello sarebbe stato il suo nome) - il prelievo del liquido amniotico era stato fatto con velocità. Toccava alla sacca sinistra - nome ancora da definire...avevamo fatto un lungo elenco -.
La dottoressa Mattei, responsabile del reparto, non riusciva però a penetrare con l'ago. Non trovava uno spazio buono per entrare. In linea di massima poteva anche andare bene. I due gemelli erano omozigoti, se il risultato dell'esame era buono per uno sarebbe stato buono anche per l'altro. Ma c'era qualcosa che non la convinceva. Era tranquilla, mi disse però di tornare la settimana dopo.
Non eravamo affatto preoccupati. Può succedere che non si riesca ad effettuare l'esame. Passai quelle giornate a riposo, come si deve fare dopo l'amniocentesi. Due, tre giorni prima del nuovo appuntamento devo dire che sentivo una certa stanchezza, la pancia stava crescendo molto, sentivo un dolore, una pesantezza nella parte destra. Ma tutti mi dicevano che era naturale, attendere due gemelli è più impegnativo che aspettare un solo bambino!
Primo giugno 2006, secondo appuntamento al centro Sant'Anna. Nuovo tentativo con l'amniocentesi al secondo gemello, quello che avevamo quasi deciso si sarebbe chiamato Giorgio.
La dottoressa Mattei riprovava ad infilare l'ago, ma seguendo il monitor non riusciva a trovare uno spazio. Mi ricordo che mi fecero uscire e che mi dissero che dovevamo provare in un'altra stanza dove gli strumenti erano più sofisticati. Niente, questo esame era proprio difficile da effettuare. Mi dissero di aspettare. Poi, entrata di nuovo in stanza la dottoressa decise di farmi una ecografia transvaginale. Un dolore incredibile.
E poi di nuovo l'attesa. Io e mio marito ci guardavamo, c'era qualcosa che sicuramente non andava. Quei minuti nel corridoio non passavano mai. Ero entrata alle 9 ed era mezzogiorno e noi stavamo ancora là. "La dottoressa Mattei vi deve parlare - disse un'infermiera. Il gelo.

Entrammo in una stanzetta. La dottoressa ci guardava in modo severo. "Sedetevi" ci disse.  Ci spiegò che i due gemelli soffrivano di trasfusione feto-fetale. In pratica le due sacche erano collegate da alcuni vasi sanguigni. Un gemello - Giorgio, per intenderci - dava tutto il suo nutrimento a Riccardo.
Quindi Giorgio deperiva mentre Riccardo si gonfiava troppo. Erano a rischio tutti e due. C'era solo una possibilità. In un ospedale di Milano - l'unico in Italia - c'era l'opportunità di effettuare un'operazione: la fetoscopia laser.
Poi prese un foglio, disegnò un cerchio e lo divise in tre spicchi. Con questo intervento si aveva un 33 per cento di possibilità di sopravvivenza per i due gemelli, un altro 33 che uno non ce l'avrebbe fatta ed un altro ancora che entrambi sarebbero morti.
Senza operazione sarebbero comunque morti tutti e due.
Non ho mai provato in vita mia un senso di freddo, di aria che manca. Mi sembrava di vivere una realtà non mia. Sentivo la mia anima che usciva dal corpo. Una sensazione - che allora non sapevo - avrei riprovato qualche mese dopo...
Uscimmo frastornati, non ricordo davvero come riuscimmo a tornare in macchina a casa. Una volta entrati nel nostro appartamento credo che ci siamo messi a letto, ci siamo abbracciati e ci siamo addormentati piangendo.
La sera io ero su Internet. A digitare su tutti i motori di ricerca possibili le parole: trasfusione feto-fetale. Ho letto decine e decine di storie. Mi sono fermata su una che raccontava di un'operazione all'ospedale Buzzi di Milano eseguita dal professor Umberto Nicolini. Riuscii a trovare la sua email e di getto gli scrissi del nostro problema.
Il giorno dopo aperta la posta elettronica non mi sembrava vero. Avevo ricevuto una sua risposta! Mi disse di chiamare subito l'infermiera per un appuntamento. Lo feci e l'infermiera di punto in bianco mi fissò un incontro per l'ora di pranzo il giorno dopo! Dissi subito di sì. Chiamai mio marito e gli comunicai questa disponibilità. Avevamo deciso, se c'era una possibilità bisognava sfruttarla. Prendemmo l'Eurostar. Quel viaggio in treno era per me una sofferenza, avevo dolori sotto il petto, alle gambe.  La mia pancia era enorme. Sembravo di nove mesi, si gonfiava a dismisura ogni giorno di più e faceva male. Stanchi e accaldati all'ora di pranzo eravamo al Buzzi. Furono tutti gentili e professionali. La dottoressa Maria Angela Rustico mi fece l'ecografia, mi spiegò quello che stava accadendo. Poi ci dissero di aspettare il professor Nicolini. Eravamo seduti in questa stanza bianca con un poster che raffigurava una bella montagna piena di neve, con un cielo azzurrissimo. Un'immagine che regalava serenità mentre dentro di noi c'era solo ansia. Il professore guardò l'ecografia, poi qualche parola: martedì lei entra in ospedale, la opero mercoledì prossimo.
Non avemmo neanche il tempo di obbiettare.
Il martedì successivo ero in un letto del Buzzi. Un ospedale pulito, ordinato dove addirittura ti danno una scheda-menu dove puoi scegliere il mangiare. Stanze da due letti, tutto immacolato e la possibilità di avere tuo marito con te senza che qualcuno lo cacci. E in quel momento avevo proprio bisogno di lui.
Quel martedì fu una giornata di esami vari e di tante spiegazioni. Con il laser avrebbero scollegato i vasi sanguigni e così i due gemelli avrebbero avuto vita propria nelle loro sacche crescendo in misura uguale. L'operazione aveva un alto rischio di aborto visto che si andava a lavorare sulle due sacche. Sarebbero state importanti le 48 ore successive. Mercoledì ero pronta. Scelsi di fare l'anestesia epidurale. Volevo vedere come andava l'operazione, non volevo svegliarmi da un'anestesia generale sapendo magari che avevo perso i bambini. Volevo essere cosciente. Furono tutti carini con me.
C'erano tante variabili. Ad esempio, il rischio che il liquido amniotico non fosse trasparente e in quel caso sarebbe stato difficile trovare i vasi sanguigni che collegavano le due sacche. I due bambini poi dovevano muoversi il meno possibile.
In sala operatoria davanti a me avevo un telo verde e non vedevo niente. Sentivo solo le parole del professore e del suo staff. L'intervento stava comunque andando bene. Poi  all'improvviso una grande risata. Il professor Nicolini si era incantato a vedere sul monitor il piedino di Riccardo, in particolar modo l'alluce ciccione. Mi tolsero il telo davanti e potei vederlo. Quasi piansi. Era un'immagine in diretta che pochissime madri vedono: i loro bambini al quarto mese di gravidanza! Riccardo era perfetto, con quei piedini deliziosi. "Dottore, speriamo che non abbia le orecchie di mio marito - dissi io scherzando. E il professor Nicolini spostò la telecamera verso la faccetta di Riccardo a cercare le orecchie. Vidi il viso di mio figlio. Era perfetto! Le orecchie, che ve lo dico a fare, erano come quelle di mio marito! Poi si spostò un istante su Giorgio. Che bello che era...
Mio marito mi aspettava in camera. "Sono stati bravissimi! - dissi io.
Ora dovevamo aspettare le fatidiche 48 ore. Mi ricordo che ogni ora controllavamo che non avessi perdite. Il tempo  passava così lentamente. La mia pancia intanto era meno gonfia, i dolori piano piano erano spariti. Il giorno dopo un nuovo controllo, poi ancora altri. Ce l'avevamo fatta! Nessun aborto, i gemelli erano salvi. Giorgio si stava riprendendo, Riccardo si stava sgonfiando. Non mi dimenticherò il viaggio di ritorno, che allegria mentre l'Italia andava avanti nei Mondiali di calcio ed ovunque c'erano bandiere.

L'appuntamento era per fine giugno. Dovevamo tornare al Buzzi di Milano per un nuovo controllo. La faccia soddisfatta della dottoressa Rustico ci fece capire che tutto stava andando per il verso giusto, i due gemelli crescevano bene! Poi mi chiese se li sentivo scalciare, rimasi perplessa, le dissi di no. Capii però subito che quello che sentivo in quei giorni non erano gorgoglii dello stomaco ma i due bambini che si divertivano a giocare a pallone!!! Da quel giorno era un continuo movimento, Riccardo in particolare non stava fermo un attimo! Ricordo che chiamai tutti, tutti gli amici cari che stavano in pensiero per noi e ci mandavano tanta energia ogni volta. "E' fatta, è fatta. I bimbi stanno bene" - urlavo nel taxi che ci portava alla stazione.
Mi sembrava di aver vissuto un sogno. Tutto ormai era dimenticato... La paura, il pensiero di non farcela, la rabbia. C'era solo euforia. Era tutto finito!
Mi avvicinavo al quinto mese. Appuntamento con la morfologica, l'ecografia che controlla se gli organi dei bambini stavano crescendo bene. Luglio era appena iniziato, l'Italia di Lippi andava alla grande, la gente non faceva altro che parlare di Materazzi, Zambrotta e compagni. Un'altra giornata afosa a Roma. L'appuntamento era sempre al centro Sant'Anna. Ammetto di aver sentito qualche brividino entrando in quelle stanze. L'ultima volta che eravamo stati lì ci avevano diagnosticato la trasfusione feto-fetale. Mi stesi sul lettino, con la mia mano che stringeva quella di mio marito. La sonda prese subito in esame Giorgio, lato sinistro. La dottoressa guardava attenta il monitor, più volte passava lo strumento sulla mia pancia. Poi mi fissò e mi disse: "Mi spiace, non c'è più attività cardiaca". Non ebbi nessuna reazione, nessun sussulto. Solo un senso di freddo ma niente di più. Neanche una lacrima. Non sentivo niente. Guardavo gli occhi di mio marito, lui guardava me e mi stringeva la mano ancora più forte. Chiesi gelidamente come stava Riccardo. "Il bambino cresce bene, gli organi sono a posto" era la risposta. "Almeno questo - dissi quasi tra me e me. Uscimmo dalla stanza e nel corridoio c'era ancora una signora che avevo incontrato prima di entrare. Avevamo parlato e le avevo detto dei gemelli. Mi aveva detto che anche una cugina del cugino di chissà chi aveva dei gemelli, che davano tanti pensieri ma che almeno in una volta sola ci si toglieva il pensiero e si avevano due figli. Ora mi sorrideva. "Tutto bene? Come stanno i bambini? - mi chiese. "Bene, grazie" - risposi.
Non so dire cosa provai, non riesco ancora. So solo che ancora una volta, arrivati a casa, io e mio marito ci buttammo sul letto e che piansi, piansi tanto.
Qualche giorno dopo l'operazione di Milano li avevo sognati. Avevano i capelli biondo cenere, occhi chiari e giocavano su un terrazzino. Poco prima della morfologica invece avevo sognato solo un bambino. Capii che il mio inconscio aveva saputo prima dell'ecografia che uno dei due non ce l'aveva fatta.
Dal Buzzi di Milano mi dissero che non sapevano spiegare questo esito, di solito le complicazioni arrivavano subito. A noi avevano dato la speranza di aver beccato quel 33 per cento buono di poter avere tutti e due i gemelli. Ma non era così. Ora dovevamo concentrarci su Riccardo.
La mia ginecologa fu bravissima, mi disse chiaramente che a quel punto non se la sentiva più di seguirmi ma che avevo bisogno di un'esperta di gravidanze difficili. Portavo dentro di me un feto morto, il rischio di infezioni era alto.
L'esperta del caso mi riempì di medicine, mi fece fare esami su esami. La paura più grande era la trombosi e per questo ogni sera mi facevo punture di eparina sulle gambe, che diventavano sempre più nere per i lividi. Al primo controllo ecografico nel suo studio un'altra doccia fredda. Io e mio marito cominciavamo ad odiare le ecografie, non facevano altro che evidenziare problemi da quando avevamo iniziato questa gravidanza. E anche in questo caso arrivò la sorpresa amara. Avevo sempre meno liquido. Lo stavo perdendo con piccole contrazioni che neanche riuscivo a sentire. Ero tra la 24esima e la 25esima settimana. La dottoressa fu molto chiara. Riposo assoluto, non mi dovevo muovere dal letto. Prossimo controllo a fine luglio, all'ospedale Villa San Pietro Fatebenefratelli di Roma.
Una volta uscita scoppiai in un pianto dirotto. "Non ce la faccio più - dissi a mio marito - non posso stare immobile a letto, io non riesco a stare ferma". Mi abbracciò forte, quasi mi prendeva in giro. "Ma come, non hai pianto prima dell'operazione. Non hai pianto durante la morfologica e ora ti disperi perchè devi stare a letto? Dai, che ce la farai".
Qualche giorno dopo l'Italia vinceva i Mondiali di calcio, cortei in strada, gente che urlava. Io e mio marito davanti alla tv, felici di quella vittoria ma rintanati in casa, a sorridere tra di noi, con una piccola ferita nel cuore e quel senso di paura che ormai da tempo ci avvolgeva.
31 luglio, non si possono dimenticare certe date. Controllo a Villa San Pietro. Nonostante il riposo, nonostante litri di acqua bevuti fino alla nausea, il liquido diminuiva. Ero andata in ospedale per un'ecografia, un'ora dopo mi trovavo sul lettino di una stanza, ricoverata d'urgenza dal dottor Paesano che dopo la visita aveva deciso che non era il caso di tornare a casa. Non avevo cambi, stavo seduta con un vestitino estivo a guardare le altre tre pazienti aspettando mio marito che era ripartito per Civitavecchia per prendere qualche mutandina, pigiama, lo spazzolino e quant'altro. Ero alla 26esima settimana e Riccardo aveva sempre meno liquido amniotico. La sera dopo mentre mio marito verso le 21 stava andando via ero in bagno e sentii come un peso dal basso ventre. Avevo rotto le acque! Ricordo che ero sul water, con gli occhi chiusi e ripetevo: "Ti prego, no, non ora, non ora, è presto, è presto". Ecografia d'urgenza e visita: il liquido era verdastro e Riccardo era praticamente a secco. La settimana dopo sarei stata operata. Sarebbe stata la 27esima settimana. Le possibilità di sopravvivenza di un bimbo nato in quel periodo sfiora il 90 per cento ma  quando nascono così prematuri non si è per niente sicuri che siano sani.
Mi ricorderò sempre le parole del dottor Orzi che mi avrebbe operato qualche giorno dopo: "Signora, suo figlio ha più possibilità fuori che dentro di lei". Intanto Riccardo, senza liquido, scalciava ogni sera, come per dire: "Mamma, io resisto!".

Eccomi lì. 7 agosto 2006. Toccava a me. Non sapevo a che ora sarei stata operata. Avevo dormito bene la notte precedente e mi sentivo stranamente tranquilla. Mio marito, poverino, aveva dormito in macchina perchè non aveva trovato un albergo e mi voleva stare vicino, anche fisicamente. Era però fresco come una rosa con tanto di barba fatta: aveva utilizzato uno dei bagni dell'ospedale.  In stanza mi prendeva in giro per le mie paranoie sulle anestesie in genere. Poi ecco l'infermiera. Era il mio turno. Andai a piedi in sala operatoria, salutai mio marito alla porta con un sorriso. Accanto alla sala operatoria mi stesi su un lettino ad attendere.

Poco prima di entrare parlai a Riccardo:

"Amore -dissi - mamma ora ti deve lasciare. So che starai meglio fuori che dentro, mi spiace di non averti potuto portare più a lungo. Mi raccomando Riccardo, ora dipenderà tutto da te. Devi essere forte e coraggioso come il nome che porti. Ce la farai".

Sentii un calcio fortissimo.


11.45. Riccardo era nato. L'assistente anestesista si avvicinò al mio orecchio: "Signora, lo sa che suo figlio ha fatto un piccolo pianto?" Era un buon segno. Dopo Riccardo, toccava a Giorgio. Seppi poi che si era fermato a 500 grammi di peso...
Uscii dalla sala operatoria, c'erano mio marito e mio padre, io mi dovevo riprendere dall'anestesia. Che strana sensazione. Sentivo nel corridoio le decine di parenti di altre pazienti che avevano partorito. Ascoltavo le loro telefonate: "E' nato, 3 chili e mezzo". Oppure"Tutto bene, assomiglia al nonno, sono 4 chili". Urlavano tutti. Io ero lì pensando al mio bambino che non pesava neanche un chilo, con solo due persone al mio fianco. Ma la gioia era la stessa. Savino era comunque - come tutti i papà - orgoglioso del nostro piccolissimo bimbo e anche mio padre aveva le lacrime agli occhi. Ricordo che mio marito telefonò a tutti gli amici orgoglioso nel dire "Pesa 915 grammi! E' di una bellezza STATUARIA", più orgoglioso di quei papà che vedono subito il loro figlio paffutello e sano sonnecchiare nel tranquillo nido.

Mio marito poi mi raccontò che mentre aspettava che io uscissi aveva conosciuto un signore in corridoio,  anche lui in attesa della moglie. L'uomo gli aveva detto "Eh, insomma, è stata dura. Mio figlio poi pesa pochino, poco più di 2 chili e 900..." Da immaginare la faccia di Savino! Tutto è relativo, vero?
Nel frattempo che parlavamo il dottor Orzi che mi aveva  operato appena vide mio marito chiese: "Lo vuole vedere?" e Savino scattò subito. Davanti a quell'incubatrice, Savino mi raccontò che la sua prima frase fu: "Credevo peggio!!" Insomma, Riccardo era bello anche se era un ragnetto chiuso in una scatola di plastica. Savino fece due fotine col cellulare e me le fece vedere. Che emozione fu per tutti noi!!
Iniziava, quindi,  la nostra avventura in T.I.N. - Terapia Intensiva Neonatale. Il giorno dopo il parto, nonostante i dolori e il catetere, mi trascinavo in TIN. Niente sedia a rotelle, volevo vedere mio figlio ben dritta sulle mie gambe.
Prima di entrare si doveva attendere in una minuscola saletta. Gli orari erano rigidi, dalle 15 alle 20. Si suonava il citofono e bisognava aspettare che l'infermiera aprisse la porta. Tre erano i reparti: TIN, SubTin e Patologia. TIN ovviamente era quello per i bambini più gravi. Si doveva indossare un camice verde e togliere anelli, catenine, orologi. Era la prima volta che io e mio marito sfilavamo dalle nostre dita le fedi. Che strana sensazione... Il momento della vestizione avveniva quasi in assoluto silenzio, l'unico rumore era quello delle buste di plastica che contenevano i camici. Appena dentro il reparto ci si doveva lavare le mani con un sapone antibatterico, di cui ancora adesso, ogni tanto, sento l'odore...
Mi avvicinai all'incubatrice A. Eccolo lì Riccardo. Pieno di tubi, occhi chiusi, un minuscolo esserino con tutto però ben fatto: manine, piedini... Rimasi a bocca aperta, poi qualche lacrima. Quello era mio figlio.
Prima di andare via venne il dottor Paesano, lui mi aveva ricoverato d'urgenza capendo subito che il mio parto sarebbe stato a rischio. Io e mio marito rimanemmo in disparte, lui forse neanche notò la nostra presenza. Si avvicinò all'incubatrice di Riccardo e poi si rivolse ad una infermiera: "Come sta soldo di cacio?". Mai frase ci sembrò più giusta e simpatica nel definire nostro bambino. Un modo di dire che vuol dire essere piccolissimo. Ci piacque subito tantissimo. Il nostro soldo di cacio stava lottando per diventare un gigante!
Tornai poi in stanza. Era ancora l'orario delle visite. Vedevo i parenti che portavano fiori, che urlavano di gioia appena vedevano dal nido i bambini.
Il mattino dopo entrò una pediatra per parlare con le altre due mamme che erano ricoverate con me. Dava loro alcuni consigli. A me non disse nulla. Come se non avessi partorito. Ma gli occhi si riempivano di lacrime la notte, quando verso l'una le infermiere portavano i bambini nelle stanze per le poppate. Io non avevo nessuno da poter allattare. Mi sentivo una creatura strana: avevo il braccialetto al polso, come le altre mamme, con il nome del proprio bambino ma era come se non avessi un figlio. Il momento peggiore fu però quando io uscii dall'ospedale. Era poco dopo mezzogiorno e avevamo deciso di aspettare le 15 - orario di entrata in TIN nel giardinetto accanto. Mi sembrava di abbandonare RIccardo. Finchè ero rimasta in ospedale stavo vivendo questo momento quasi con serenità. Uscita da lì la terra era come se tremasse. Per fortuna la mia amica Federica, partita per la vacanza, ci avrebbe lasciato la sua casa a Roma per una ventina di giorni. Per me fu una salvezza, tornare a Civitavecchia, 80 km distante da Riccardo, in quel periodo, sarebbe stato devastante.


Dall'8 agosto - giorno dopo la sua nascita - alla sua uscita andai quasi sempre a trovare Riccardo. Rimasi a casa solo due giorni a causa della febbre. Ma piansi tutto il tempo, mi sembrava di tradire mio figlio. In TIN c'erano quattro incubatrici, di fronte a noi c'era Matilde, nata una settimana prima di Riccardo ma sempre alla 27esima. Accanto invece una bimba di neanche 25 settimane. Ognuno era concentrato davanti alla propria scatola/utero ad osservare ogni movimento del proprio figlio. E' crudo dirlo ma venivano comunque considerati feti. Mi ricorderò sempre che la prima volta che aprii il minuscolo pannolino di Riccardo l'infermiera invece di dire che aveva fatto la cacca parlò di meconio. Mio figlio, quindi, ancora non meritava lo status di bambino.
Noi genitori rimanevamo spesso impalati davanti a questi esserini che non facevano altro che dormire e ogni loro piccolo movimento ci sembrava un segno positivo. Il tutto accompagnato da un suono che ancora adesso mi sembra di sentire, il bip bip del saturimetro che controllava 24 ore su 24 i valori di ossigenazione del sangue. Era come un urlo. Era sicuramente utile ma odioso. Poco prima di entrare nella stanza, quando indossavo il camice e sentivo quel suono in lontananza pregavo - ma credo lo abbiano fatto anche gli altri - che non fosse il saturimetro di mio figlio. Le infermiere ci consigliavano giustamente di non vedere quei valori, c'era anche chi girava il monitor dall'altra parte per nasconderlo ai nostri occhi. Ma come è possibile far finta di niente quando quel bip bip indica la salute di tuo figlio?
Ogni giorno chiedevamo il peso di Riccardo. Era entrato a 915 grammi ma con il calo fisiologico che non risparmia neanche i prematuri era sceso a 740. Difficile immaginare che possa essere il peso di un essere umano.
Scattammo tante foto. Riccardo era davvero buffo. Inoltre indossava uno strano cappellino che serviva a reggere il Cpap, una mascherina che soffia ossigeno per aiutare a respirare.  Nonostante dormisse molto - gli davano dei barbiturici, credo perchè faceva dei movimenti a scatti - quando si stiracchiava o si girava faceva delle smorfie simpatiche. E' sempre stato molto espressivo. Piano piano facemmo amicizie in TIN, soprattutto con i genitori di Matilde. Con loro abbiamo vissuto momenti di gioia e di preoccupazione. Penso che solo chi è passato attraverso questa esperienza  possa davvero capire cosa si provi.
Sei come in un limbo, non sai davvero cosa sei. Sei un genitore? Lo sarai? Tuo figlio sopravviverà? Ogni giorno arrivi in TIN e non sai quello che succederà. Tuo figlio potrebbe avere delle crisi respiratorie, un'infezione, potrebbe morire davanti a te. Quando ci chiedevano - a me e a mio marito - cosa provavamo rispondevamo sempre con una frase secca: "E' dura". Ed è l'unica cosa che mi sento di dire a chi sta vivendo questo momento. Bisogna avere forza fisica e mentale per tornare a casa, guardare la televisione, mangiare, dormire, pagare le bollette sapendo che tuo figlio è attaccato ad una macchinetta e l'ospedale ha il tuo numero di cellulare per avvisarti che qualcosa non va. A volte mi chiedo come ho fatto ad andare avanti. Mi ricordo che c'è stato un periodo in cui mandavo degli sms a mio marito, per cose stupide, tipo: "Sto uscendo a fare la spesa" e se lui non mi rispondeva subito con un altro messaggino mi convincevo che non aveva il coraggio di farsi sentire, non mi voleva dire che Riccardo stava male. Mi chiedevo: "Perchè non mi risponde? Come mai ci mette così tanto tempo? Ha paura di chiamarmi, forse? Non vuole dirmi che lo hanno contattato dalla TIN... Oddio, Riccardo, NO!" E, magari, in mezzo alla strada mi sentivo irrigidire, provando una sensazione di vuoto, di freddo che gela il sangue, l'anima. Non dico che si possa arrivare alla pazzia. Ma bisogna scavare dentro se stessi e trovare qualla pazienza, quel coraggio che non si pensava di avere. La sera, prima di addormentarmi, mi chiedevo perchè stesse succedendo proprio a me che in fondo non avevo fatto del male a nessuno. Il problema è proprio questo. Pensiamo sempre che capiti agli altri.


Abbiamo visto la morte in TIN. Non è una bella signora affascinante e neanche uno scheletro vestito di nero. E' un'incubatrice che non c'è più, un monitor che non rileva più alcun segnale. E' un bambino nato e vissuto pochi giorni, è il pianto dei genitori che fino al giorno prima ti sorridevano nel corridoio in attesa di entrare e 24 ore dopo tengono un braccio una creaturina che non respira più. La morte è fare avanti e indietro tra casa e ospedale per oltre tre mesi, poi all'improvviso affrontare la perdita di tua figlia, dopo la fatica e la speranza. La morte arriva, silenziosa, anche in un giorno di sole, con il cielo limpido e blu. Prende tuo figlio e lo porta via. E ti chiedi perchè non lo abbia fatto subito, perchè ti abbia illuso per giorni.
Non sono mai riuscita a pensare alla morte di Riccardo. Quando - la notte soprattutto - il pensiero stava per arrivare era come se il mio cervello ponesse una barriera, creasse una sorta di vento che portava via quella paura. Rimaneva solo lo spavento ma nulla più. Eppure la morte passeggiava indisturbata in TIN, pronta ad agire, a coglierti in un momento di debolezza.
Quel giorno non avevamo telefonato per sapere come aveva passato la notte Riccardo. Dalle 13.30 alle 14.30 si poteva chiamare e parlare con un pediatra per conoscere le condizioni di salute di tuo figlio e se c'erano novità. Lo facevamo spesso ma proprio quel giorno, chissà perchè, avevamo deciso di lasciar perdere. Tanto andavamo - come sempre - a trovarlo. Ricordo che eravamo anche allegri, scherzavamo. Era domenica. Avevamo fatto un po' tardi, e non c'era nessun altro genitore nel corridoio, erano entrati tutti. Suonammo in TIN e ad aprire la porta venne un'inserviente. "Avviso che siete qua, qual è il cognome? Ah, un attimo". Poco dopo ritornò e ci disse: "Mi sa che dovete aspettare". In lontananza sentivamo  un'infermiera dire:"Sono arrivati i genitori di Riccardo". Poi ancora silenzio e attesa. Io mi sentivo qualcosa, una sensazione di freddo. Mio marito diceva di non esagerare ma forse chissà, qualcosa sentiva anche lui. I minuti passavano. E un'altra infermiera aprì la porta: "Salve, prima di entrare vi deve parlare il dottore, aspettate qui". Io e Savino ci guardammo, i nostri occhi erano sbarrati, ci dicevamo: calma, calma. Stavo per svenire. Mi sembrava di vivere un'altra realtà, non sentivo più il corpo. Ecco il dottore: "Entrate qui" e ci fece accomodare in uno studiolo. "Riccardo è stato intubato..." E poi tante parole... In pratica aveva avuto un'infezione che lo aveva indebolito e non riusciva più a respirare da solo. Chiesi come mai dopo 55 giorni avesse avuto una ricaduta così grave, di solito un episodio del genere avviene nei primi giorni. Anche il dottore non sapeva darci una spiegazione.
Entrammo in TIN. Riccardo sembrava più indifeso che mai. Piansi. Non riuscivo proprio a non far scendere le lacrime anche se mi vergognavo. Le infermiere furono carine con me, mi dissero che non dovevo farmi vedere da mio figlio in quel modo, di tirarmi su. Ma non riuscivo proprio a smettere. C'era una macchina che faceva respirare mio figlio, vedevamo il suo piccolo torace alzarsi meccanicamente con un ritmo imposto, artificiale. Non so come sono sopravvissuta a quei giorni e a quegli 8 che sono seguiti.
Ma in TIN abbiamo vissuto anche un'emozione altrettanto intensa e per fortuna gioiosa. Nonostante avesse bisogno della mascherina di ossigeno e fosse attaccato ai tubicini un giorno l'infermiera di turno - Francesca - mi disse che potevo tenerlo in braccio, per un po'.   Era il primo passo per la marsupioterapia: le mamme tengono sul seno nudo i loro piccoli per fargli rivivere il tepore del grembo materno. Sembra che faccia bene al bambino. Francesca aprì l'incubatrice e districandosi tra i fili mise Riccardo sul mio petto. Gli allarmi suonavano, io ero agitata e preoccupata. Poi lo sentiì tra le mie braccia, accarezzai delicatamente la sua testolina e piansi. Piansi disperatamente. Dopo più di un mese dalla sua nascita tenevo in braccio mio figlio per la prima volta!!!
Ma la sensazione più forte in TIN, accanto alla paura di vedere il bambino peggiorare davanti ai tuoi occhi, è che non puoi decidere per lui. Non conti nulla, non sei una madre. Mentre rimani davanti all'incubatrice, apri l'oblò per infilare le mani ed accarezzarlo ti rendi comunque conto che non puoi aiutare quel bambino. Vedi gli aghi e i lividi sulla sua pelle, le infermiere che lo prendono, lo spostano, gli danno le medicine, gli tolgono il sangue per le analisi o gli fanno le trasfusioni. Magari lui dorme beato e vorresti che riposasse ancora ma è arrivato il momento della medicina e viene svegliato bruscamente. Non c'è pace per questi bambini che lottano tra la vita e la morte. L'incubatrice è la loro salvezza ma anche la loro tortura. E tu sei ferma, immobile con la voglia di gridare: Lasciatelo un po' in pace, è un bambino, ha bisogno di serenità.... Ma sai anche che tutto quello che viene fatto - anche se non ti piace - serve a salvare tuo figlio. E il senso di impotenza aumenta.

Abbiamo vissuto più di 60 giorni in Terapia Intensiva. Passare in SubTIN ci sembrava un miraggio. Per arrivare a quel traguardo il bambino deve almeno respirare da solo e Riccardo sembrava invece abbonato al Cpap. Non c'era verso. Aveva ancora bisogno della mascherina e dello strano cappellino che reggeva l'apparecchio. L'unica volta che  avevamo visto la sua testolina nuda era stato appunto quando era stato intubato e in quel caso il cappellino lo rimpiangevamo! Riccardo aveva ancora bisogno di questo aiuto. Ogni tanto il saturimetro suonava ancora, il Cpap rimaneva attaccato al suo naso.
Poi il passo in avanti, quasi inatteso. Noi eravamo in corridoio, ancora non facevano entrare i genitori con i bambini ricoverati in TIN, c'era un'emergenza e dovevamo aspettare. Chi invece doveva andare in Patologia o in SubTIn poteva passare. Dopo 2 minuti Paola - la mamma di Matilde che nel frattempo era stata trasferita in terapia meno intensiva - usciì dal reparto e venne da noi con un sorriso sornione dicendo: "Guardate che anche voi potete entrare, Riccardo è passato in SubTIN!" L'abbracciai e mi misi ad urlare di gioia con le braccia alzate da campione del mondo! Riccardo non aveva più gli odiosi tubicini, in incubatrice c'era ancora un 21 per cento di ossigeno ma andava bene così. Piano Piano - questo il nostro motto!!!!
Una settimana dopo eravamo in Patologia, un traguardo che ad agosto mi sembrava a volte impossibile. Finalmente potevamo portare i vestitini ai nostri bambini, potevamo tenerli in braccio spesso, dare loro il biberon, passare qualche ora serena tra noi mamme. Sembrava di avere davvero un figlio!!!
Io e mio marito non ce lo dicevamo per scaramanzia ma sentivamo che era fatta... "Quanto ancora, quanto ancora?" gli ripetevo e lui paziente: "Dai, ancora un pochino, non mollare proprio ora". Che strano, invece mi stavo esaurendo adesso che sentivamo il profumo di casa per Riccardo. La stanchezza stava cominciando ad avanzare. La sera quando stavo per addormentarmi mi chiedevo cosa stesse facendo mio figlio, se l'infermiera lo stava controllando, se la coperta non fosse stata troppo stretta con il rischio di soffocarlo... Pura paranoia. E pensare che non ero mai stata una persona ansiosa.. beh, ora lo ero diventata dopo questa esperienza. Comunque tutto procedeva bene. Ma come se non avessimo avuto tante emozioni nelle settimane passate arrivò la doccia fredda. Riccardo doveva fare una risonanza magnetica alla testa. Il fatto che avesse avuto una sorta di convulsioni nei primi giorni di vita e qualche scatto che continuava a fare avevano insospettito il neurologo. I dottori ci rassicuravano, dicevano che era normale ma sapevamo che non veniva fatta a tutti i bambini quindi così normale non era. Proprio nel momento in cui ci stavamo rilassando arrivava un altro spavento che dovevamo superare. La risonanza era prevista per il tardo pomeriggio. L'avrebbero dovuto trasportare con un'ambulanza in un centro vicino, gli avrebbero fatto l'anestesia generale. Ho avuto tanto tempo per pensare. Se Riccardo avesse avuto danni neurologici lo avremmo amato ugualmente? Ce l'avrei fatta ad avere un bimbo con ritardo mentale? Non facevo altro che dire tra me stessa: "Tutto andrà bene, tutto andrà bene". Ma dopo due mesi e passa che ti affezioni a quell'esserino e sogni grandi progetti per lui all'improvviso si insinua il sospetto che quel tuo bambino non sarà normale, che avrà bisogno di un aiuto, che tu non sarai in grado di seguirlo da solo, che potrebbe avere problemi anche motori... Lo amerai con la stessa intensità? Alla fine mi sono detta di sì, ma dentro nel mio cuore qualcosa si spezzava. Il destino mi stava riservando un'incombenza più grande di quella che avrei potuto portare avanti.
Non sono stata una grande credente. O meglio, lo ero da piccola tanto da pregare ogni sera prima di addormentarmi. Poi ho perso Dio, non ho più creduto, poi mi sono aggrappata al pensiero di una grande energia, e ancora, mi sono convinta che se si dà del bene lo si riceve. Quel giorno io e Savino avevamo bisogno di qualcosa più grande di noi e siamo andati davanti alla porta della cappella dell'ospedale che però era chiusa. Il sacerdote era lì vicino, deve aver visto i nostri volti disperati, ha preso le chiavi e ci ha detto: "Vi apro la chiesa per 5 minuti, va bene?". Siamo entrati, ci siamo inginocchiati e piangendo abbiamo chiesto: "Fai che Riccardo sia sano, fai che la risonanza vada bene".

Non stavo parlando al Dio della Bibbia, al Dio dei preti, al Dio con la barba bianca che giudica e condanna. Stavo parlando al Dio degli uomini, delle buone cose, mi rivolgevo a quell'energia positiva che so avvolgere il nostro mondo. Rimanemmo qualche minuto e andammo davanti alla TIN. I risultati sarebbero arrivati in serata. Riccardo ero ritornato in Patologia, sapevamo che si era svegliato e che lui stava bene. All'improvviso, la porticina dello studio del pediatra di turno si aprì: "Tutto nella norma, la risonanza magnetica è nella norma". Ci abbracciammo fortissimo, avevamo vinto alla lotteria. Gridammo: "Bravo, bravo Riccardo, BRAVO".

Il saturimetro era ormai diventato un oggetto familiare. Riccardo, durante la poppata in Patologia, aveva ancora qualche crisetta. Diciamo che un bip bip ci scappava sempre. Controllare i valori, quindi, mi faceva stare meglio, sapevo quando fermarmi con il biberon. Quel mattino del 24 ottobre stavo discutendo a voce alta con una signorina del 187. Avevo stipulato l'abbonamento con Alice però mi ritrovavo anche con un abbonamento ad una squadra di calcio di serie A che proprio non avevo richiesto.  "Lei può vedere la partita della squadra da lei scelta sul computer - mi diceva. Ed io: "Guardi, io non ho mai chiesto  questo servizio, si figuri che sono tifosa della Juventus che ora è in B, pensi quanto me ne importa della serie A". E lei ancora: "Qui risulta che ha chiesto l'abbonamento". Insomma, non se ne usciva proprio. Chiusi il telefono arrabbiatissima quando mi arrivò una chiamata sul cellulare, il numero era anonimo. Pensai, senza senso,  che era il 187, risposi con un "Pronto" non proprio simpatico. "La signora Silvia, mamma di Riccardo?". Con tutto che mio figlio stava bene, che lo avevo visto la sera prima, che ormai le paure erano finite, quasi svenni e pensai che c'era qualcosa che non andava. "Sì, sono io... perchè? Che succede?" La donna con un tono freddo mi disse: "Signora, allora dimettiamo Riccardo, lo potete venire a prendere dalle 16, va bene?".

>Rimasi qualche secondo in silenzio. Oddio... a casa..mio figlio a casa... Ma non era presto? Erano sicuri? Dissi alla donna che saremmo venuti per le 17 e chiamai mio marito: "Savino, ha chiamato l'ospedale, ci danno Riccardo".  Che gioia! Ma che paura anche... Riccardo era monitorato con il saturimetro, con il biberon mangiava ancora lentamente, come avremmo fatto a casa? E se fosse stato male? Lo avremmo capito? E come si fa il latte artificiale? Io avevo ancora il latte ma Riccardo era troppo debole per prenderlo. Per tutto il tempo della sua degenza lo avevo tirato, lo avevo messo in contenitori sterili e l'avevo dato all'ospedale, ma adesso avrei dovuto pensarci io e comunque non sarebbe bastato più. Dovevo fare delle aggiunte... Tanti pensieri affollavano la mente...
Telefonai a tutti, ai genitori, agli amici... "Riccardo a casa, Riccardo a casa". Dopo 78 giorni di ospedale nostro figlio quella sera avrebbe dormito con noi.
Alle 17 eravamo lì, in ospedale, ci diedero Riccardo, vestito di tutto punto, noi lo mettemmo nella carrozzina mentre ci diedero un lungo foglio di dimissioni con tutte le visite e i controlli che avremmo dovuto fare e con le medicine che doveva prendere. Uscimmo orgogliosi con questo batuffolo che si perdeva tra i lenzuolini e le copertine della carrozzina. Iniziava un'altra avventura, anche questa non facile. Riccardo pesava 2300 grammi ed era lungo poco più di 44 cm.
Una volta rientrati mi ricordai di una cosa: presi la mia agendina e sorrisi vedendo che su quel giorno c'era un segno di biro. Avevo cerchiato la data del 24 ottobre qualche mese prima. Era la data in cui pensavo sarebbero nati i gemelli. Non era andata proprio così, ma era sicuramente lo stesso il giorno più felice del 2006.

Silvia Mobili(post originale)

4 commenti:

  1. l'ho letto stamattina e ho pianto tanto.
    Ti volevo ringraziare per aver raccontato la tua esperienza, sono sicura che aiuterà tantissime mamme e papà che stanno vivendo esperienze simili.
    Come sta adesso il tuo bimbo? ciao daria

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  2. Ciao Daria, grazie della visita! Come puoi vedere dal sito web da cui è tratto il racconto http://www.soldodicacio.com/ Riccardo oggi sta benone :-)

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  3. è una delle storie più belle che io abbia mai letto. un credente vi direbbe che è un miracolo, io vi dico che sono la forza e l'amore di due genitori aiutati dalla scienza e dalla tecnologia. complimenti davvero, per il modo in cui hai affrontato quel periodo, e per come ce l'hai raccontato. un abbraccio

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  4. a volte nella vita dobbiamo entrare in contatto con i nostri dolori,quelli viscerali,animali perchè questi ci aiutino ad andare avanti,perchè il dolore va ascoltato dobbiamo stargli accanto capirlo e non respingerlo,ti ammiro molto,grazie!

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