martedì 18 dicembre 2012

Il dolore l'ha fatto al posto mio


9 gennaio 2012

Cara L****,
voglio raccontarti la tua nascita. Approfitto di questo pomeriggio mite di gennaio, in cui tu sei uscita con tua nonna a fare una passeggiata, per scrivere che cos'è successo quel giorno. Era un giorno normale, ma per noi è stato speciale.
Comincio dal 31 ottobre 2011.
È mattina e mi sveglio sapendo che, per l'ennesima volta in nove mesi, devo raccogliere la pipì nel vasetto di plastica con il tappo rosso. Più tardi, io e tuo padre F******** dobbiamo scendere in città per farla analizzare assieme al campione di sangue che, per l'ennesima volta, mi devono prelevare. Quando arriviamo in Via I* N*******, però, mi accorgo di averlo dimenticato a casa. Devo andare in bagno e fare di nuovo la pipì.
Nella stessa mattinata ho prenotato la visita dalla ginecologa. I risultati delle analisi non saranno pronti, lo so, ma non importa: tutto è sempre stato nella norma e mancano ancora dieci giorni alla data prevista per la tua nascita. Ho l'impressione, tra l'altro, che la dottoressa D******** sia fissata con la misurazione della pressione: me la trova immancabilmente troppo alta e mi invita sempre a misurarla in farmacia. Non lo faccio mai, io. Non ci do peso. Infatti, quella mattina, è alta; sostengo che sia colpa dell'agitazione. Poi, però, si scopre che al laboratorio analisi hanno già verificato la mia pipì (di seconda scelta) e hanno trovato le "proteine alte". Continuo a pensare che non ci sia nulla di grave: d'altra parte, una pipì di seconda scelta deve pur avere qualcosa di guasto. Insomma, non mi convincono. Non mi convincono neanche i gesti che rivolge la ginecologa a Francesco: picchietta la mano destra con la mano sinistra, di piatto, per significare l'esclamazione «Su, su, àndale (in ospedale)»! Mi firma infatti un foglio bianco in cui mi si prescrive il ricovero per "gestosi gravidica" e mi congeda con la frase: «Fatemi sapere come è andata».
Fuori, il cielo biancheggia. È un autunno caldo: ho addosso un paio di pantaloni di cotone, neri, e una felpa con le maniche a tre quarti, arancione. Sulle spalle mi sono buttata una mantella di lana perché non si sa mai e ai piedi porto delle ballerine e delle calze di lana. Sono agitata ma continuo a dire a tuo padre, come un disco rotto: «Speriamo che mi mandino via, speriamo che non mi ricoverino, speriamo che sia solo un controllo, non mi sento pronta».
A casa, aggiungo alla valigia già pronta lo spazzolino e il liquido per le lenti a contatto. Faccio anche un po’ finta di niente e cerco, con l’immaginazione, di evadere altrove, preparandomi una playlist dell’IPod «per quando sarò in travaglio, se mai lo sarò» di grandi classici del rock americano («Jorma Kaukonen andrà benissimo perché mi darà la carica! Mai più ci metto Eddie Vedder!»). Ma poi mi scappa da piangere: a casa, per strada, in macchina. «Io non mi sento pronta, perché pensavo che avrei cominciato il travaglio a casa, inaspettatamente, con l’aiuto – magari – di un bagno caldo con le bolle di sapone. Io non volevo che andasse così, con la prescrizione di un ricovero. A freddo. Io non sono pronta e la bimba tanto meno. Io lo so che non vuole uscire, perché non è il suo momento».
E così arriviamo in ospedale. Al terzo piano, in ostetricia, ci accoglie il dottor B*****, che ha una faccia simpatica e mi dice: «Speriamo che abbia i suoi occhi». Mi fanno entrare in una stanza e mi misurano la pressione; poi mi attaccano a una macchinetta che traccia delle curve e capisco che quello è il famoso “monitoraggio”. Vicino a me siede una ragazza nordafricana che si lamenta e mi spiega che sa già quello che l’aspetta, perché il suo è un terzogenito. Quando ci offrono un tè e aprono un fascicolo a mio nome, corredandolo di tutti i miei dati, capisco che non lascerò l’ospedale da sola ma in tua compagnia.
Un’infermiera sorride perché trova strano che io non mi lamenti nonostante il mio tracciato sia più sussultorio di quello della mia vicina; pare che io abbia delle contrazioni, ma io so che queste contrazioni sono le stesse che mi hanno accompagnata negli ultimi due mesi. Ogni volta che ti muovi, infatti, mi provochi un indurimento del ventre (quella che io chiamo “pancia dura”), eppure non ho mai pensato che questi stiramenti potessero essere i prodromi del parto. Tutto sommato, non possono esserlo, visto che io mi sento benissimo e – ne sono convinta – tu anche.
Il giovane medico che raccoglie i miei dati nel fascicolo mi fa notare, di sfuggita, che è un peccato che io non abbia fato richiesta dell’epidurale, anche solo per precauzione (come «è un peccato»?, mi chiedo. Forse che finora mi è del tutto sfuggito il concetto di “dolore del parto”? Forse che ho sottovalutato qualcosa? Aiuto. Sono terrorizzata). Mi comunica quindi che mi applicherà un gel a base di prostaglandine sul collo dell’utero e poi si scusa anticipatamente perché, avendo quasi finito il turno, dovrà andarsene. È un medico proprio gentile perché, al termine del colloquio, aggiunge anche: «Senta, con l’epidurale sarebbe stato meglio ma si fidi di me: cerchi comunque di godersi questi momenti, anche se sentirà male».
Mi fanno spogliare, rivestire di pigiama e presentare in sala “induzione parto”. C’è un intermezzo in cui ci presentiamo alla neomamma rumena con cui condivido la stanza e a suo marito, un colosso che spiega a F******** di non aver avuto lo stomaco per assistere a tutto il parto. «A un certo punto ho visto le stelle», ci spiega, «perché è davvero una cosa terribile, che non pensavo». In preda al terrore mi faccio dunque applicare il gel dal giovane medico gentile, che mi rassicura e che mi dice «Fa male, lo so, resista, fa male, lo so». Chiedo un Valium. Sono le cinque di pomeriggio e F******** si siede sulla poltrona a fianco del mio letto. La stanza è sui toni del rosso e dell’arancione e il mobilio mi ricorda quello di una cucina da moderno monolocale studentesco. Non è affatto male, ma fa caldo e la finestra si affaccia su uno squallido cortile grigio. Sta imbrunendo e io tremo dalla paura. Continuo a ripetere che non volevo che andasse così, perché né io né tu siamo spontaneamente pronte.
Il fastidio che provo è simile a quello pre-mestruale. Cerco di riposare; ogni tanto importuno chi passa dalla mia stanza narrandogli tutta la mia angoscia. «Ho paura, non ce la faccio, ditemi che ce la posso fare, che cosa mi succederà, ho paura, ve l’ho già detto?, scusate, sono una piaga, lo so, ma ho davvero paura». Cerco di coinvolgere anche le inservienti, scambiandole per infermiere. Con tutti questi camici, non si capisce mai a chi si sta parlando.
Passano otto ore. Nel frattempo, hanno invitato tuo papà ad andarsene a casa: «Non è dilatata; fa in tempo a farsi una dormita e a tornare più riposato, domattina presto». Ma lui niente, è voluto restare e si è accomodato alla bell’e meglio sulla sua poltrona non reclinabile. Ho scoperto, peraltro, che c’è di turno un’ostetrica di F****** («Ma dài, non sapevo facessi l’ostetrica! Che bello vederti qui, che rassicurante, perché sai, io sono terrorizzata, dunque ti prego, aiutami»). Insomma, alla fine arriva l’una e un nuovo medico, molto più brusco del primo, che mi intima di rilassarmi per la seconda applicazione di gel. Io non ce la faccio, lui spinge e più spinge meno io ce la faccio. Alla fine piango, sono scossa da un tremore incontrollato e lui mi liquida rivolgendosi così all’ostetrica: «Lo vede? Che cosa le dicevo? Come si fa a lavorare con una così agitata?». Tra me e me gli auguro di trovarsi una pigna su per le viscere e un collega altrettanto disumano per farsela levare.
Intanto le ore passano e il dolore aumenta. Non lo trovo insopportabile: sono stata peggio certe notti, durante il ciclo, seduta sulla tazza del water (ho letto Full of life di Fante tutto di filato, in una di quelle notti di contrazioni). I medici che mi visitano mi chiedono: «Ma come? Non sente male? Il tracciato ha molti picchi» ma poi comunque concludono che le contrazioni, per quanto evidenti, non sono efficaci e non mi sto dilatando. Ogni tanto, quando il dolore si fa più sordo e continuo, mi metto carponi sul letto; preferisco però stare distesa sul fianco destro e schiacciare dei pisolini leggeri. Da qualche parte, in una sala poco distante, qualcuna urla con una voce cavernosa. Penso: un vitello; è il muggito basso, greve, di un vitello. C********, l’ostetrica di F******, smonta dal turno di notte e viene a salutarmi.
Alle sei, il mio corpo emette un «crock» che si trasmette fino alla macchina del monitoraggio: questi suoni coprono per qualche istante il suono del battito del tuo cuore.
(Il seguito lo scrivo adesso, un anno dopo: è il 23 novembre 2012 e ora tutto è letteralmente acqua passata).
Allora capisco che è successo qualcosa e chiedo a F******** se ha udito lo stesso «crock»: niente, lui sta dormicchiando e non fa caso ai miei movimenti né ai suoni nella stanza.
Passa una nuova ostetrica bionda e grassoccia, troppo sbrigativa per i miei gusti da ipersensibile e terrorizzata, che mi trova sempre più contorta e incapace di sopportare il dolore a carponi, sul fianco, in piedi. Si accorge che è ora di trasferirmi in sala parto e, quando mi fa alzare, scopriamo che il pigiama è bagnato e che mi si sono rotte le acque. Mi manda a fare una sosta in bagno; quando mi siedo per fare la pipì mi accorgo che il dolore ha superato la soglia critica e che non assomiglia più ad alcun dolore mensile.
Mi viene da piangere: tutto è così impersonale mi sembra di essere in un hotel a tre stelle il bagno non è mio fa troppo caldo in queste stanze e io desidererei dell’aria pulita sono stanca come dopo una notte in bianco in gita con le medie non mangio dal giorno prima e mi sento indebolita. Sono sempre più preoccupata, sempre di più temo di andare incontro all’ineluttabile prova più grande di me.
A questo punto tutto diventa indistinto e non faccio caso alla distanza tra il bagno e la sala parto. Non sostengo più il peso del mio corpo. So solo che mi trovo in una stanza blu dotata della vasca per il parto in acqua, che avrei richiesto se solo non avessi avuto l’induzione al parto. C’è un trompe l’oeil sul soffitto che riproduce un lucernario, oltre il quale si apre un finto cielo azzurro. Tutto è smodatamente lieve, inadeguato rispetto all’enorme dolore che mi sta per spaccare in due come un’anguria; ma apprezzo lo sforzo di chi ha voluto dipingere le pareti di blu, aggiungendo un finto spiraglio alla stanza, un ghirigoro qualsiasi sul teatro di quella che mi sembra sempre di più una tragedia. Mi rendo conto però sempre meglio della luce naturale che, un po’ alla volta, inonda la stanza. È mattino, che ha l’oro in bocca e forse anche in altre cavità.
Non posso stare in piedi, né carponi. Mi arrampico sul lettino dove mi accascio, sdraiata sul fianco destro, quello su cui – da sempre, dall’infanzia – è più facile prendere sonno. Voglio addormentarmi, non voglio più essere qui. Io non so portare questo dolore. È un male che occupa tutta la stanza e che non si ferma a me, mi sta sopra, mi sovrasta e mi atterra come un pugile potentissimo. Io non posso fare niente, se non desiderare con tutte le mie forze di andarmene, almeno con l’anima: di addormentarmi, di svenire. Mugolo come una moribonda: altro che muggire.
Invece non svengo. Le contrazioni sono ampie e regolari: una ogni due minuti, forse, ma lunghe decine di secondi. Sono, in ogni caso, troppo frequenti; non mi lasciano tregua e non riesco a respirare. L’ostetrica fortunatamente non è più la bassa biondina grassoccia: prende il suo posto S********, una donna che io immediatamente identifico come la mia salvatrice. La ringrazio e le dico che sono contentissima di averla incontrata perché di lei, non so perché, mi fido. Insieme a F********, mi tiene le gambe aperte quel tanto che serve: io non posso farlo perché non riesco a comandarle.
Le contrazioni sono venti o trenta. S******** si allontana dalla stanza per un’emergenza ma chiedo a F******** di richiamarla subito indietro perché ho bisogno di spingere. Ho proprio uno stimolo all’evacuazione e, in quel momento, il dolore si allontana da me, si sgonfia, alleggerisce la pressione, non occupa più tutto lo spazio, non mi schiaccia. E io ritorno me.
Sono le otto e io assecondo questo stimolo intermittente, una nuova contrazione ma questa volta estroflessa, non sorda ma liberatoria. Comincio a spingere fuori tutto ciò che mi ingombra le viscere, accompagnata dagli incoraggiamenti di tuo padre e dell’ostetrica (delle esortazioni simili a quelle dei tifosi della curva nei confronti dell’attaccante che sta portando la palla in porta). Spingo, spingo e mi sento scoppiare le vene del collo. A un certo punto sento che faccio più fatica, che qualcosa mi brucia (scopriremo in seguito che tu sei uscita con un braccio sollevato, lacerandomi le pareti interne sia davanti che dietro). Ogni tanto, infatti, lo stimolo si ferma e S******** minaccia di darmi l’ossitocina.
Alle 8:40 tu esci, catapultata dallo scivolo. Il dolore svanisce e resta solo un vago bruciore della lacerazione interna e di un esteso strappo perineale. Non parli, non dici nulla. Tagliano il cordone, ti lavano e ti pungono con la siringa e tu finalmente urli. Io penso soltanto che sono sopravvissuta, che ora tutto mi può accadere e che io – pur senza sopportare il dolore – l’ho attraversato e superato (o il dolore l’ha fatto al posto mio: io non ho fatto niente, anzi, non volevo esserci). Mi premono la pancia fino a farmi espellere la placenta.
Quando torni da me, io non ti vedo perché non ho gli occhiali addosso e sono troppo sudata per rimettermeli. Indovino la testa bagnata e un po’ scura, sono a disagio e affermo: «Ma io non la conosco». Piango e non so se per me che ce l’ho fatta, per te che sei nata, per quest’esperienza enorme e insopportabile eppure conclusa. Poi ti staccano perché devono ricucirmi: tu resti con tuo padre. Io ti studio in un secondo momento, quando ti allatto per la prima volta. Ma questa è un’altra storia.

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